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Ultima fermata per le riforme

di Stefano Folli

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30 dicembre 2009

È difficile non essere scettici sul destino a breve della "legislatura costituente", ossia sul confronto tra maggioranza e opposizione in materia di riforme costituzionali. Al tempo stesso è un po' presto per mostrarsi rassegnati. Aspettiamo almeno che tutti abbiano messo le carte in tavola: perché è evidente che in questo dialogo natalizio, più apparente che sostanziale, ci sono ancora troppe riserve mentali.

Cominciamo da quello che manca: una comune idea della Repubblica che si vuole costruire. Avere un'idea comune non significa, ovviamente, essere d'accordo su tutto, bensì condividere una certa visione delle istituzioni e di quale sia l'equilibrio fra diritti e doveri. Le forze politiche che parteciparono all'Assemblea costituente del 1947-48, riuscirono a procedere lungo lo stesso sentiero a dispetto delle divisioni idelogiche. Per quanto possa apparire incredibile, l'Italia post-ideologica dei nostri giorni non c'è riuscita e ha mancato per anni l'obiettivo del rinnovamento.
A ben vedere, gli elogi rituali che accolgono i periodici appelli del capo dello stato equivalgono all'omaggio che il vizio rende alla virtù.

I politici si rendono conto che il presidente incarna quell'idea alta delle istituzioni come casa comune che a loro manca. E lo applaudono senza problemi quando richiama l'urgenza delle riforme (è probabile che accadrà anche domani notte dopo il messaggio di San Silvestro). Eppure finora tutti i tentativi di fissare una cornice preliminare dentro cui collocare il processo riformatore non sono andati a buon fine. Basta vedere come oggi viene contestata da destra la cosiddetta "bozza Violante", ossia un documento della scorsa legislatura che porta il nome dell'ex presidente della Camera ed è sicuramente migliorabile, purché si ammetta che può essere un'ottima base di partenza.
Viceversa, è arduo anche mettersi d'accordo sulle priorità della fatidica "fase costituente". Al punto che nel Partito democratico di Bersani e D'Alema, tuttora alla ricerca di una coerente identità riformista, c'è chi sovrappone piani diversi e sostiene che l'ammodernamento delle istituzioni è meno importante delle politiche sociali. In altre parole, si confondono le acque: non c'è chiarezza su quello che si vuole e soprattutto è diffuso il timore che l'incontro con la maggioranza finisca per rivelarsi un trabocchetto, come insegna l'esperienza di Veltroni nel 2008. Il che non è un buon viatico; anzi, è un modo per regalare a Di Pietro altri spazi di manovra.

Occorre peraltro abbondante ottimismo per credere che il centro-destra stia davvero tendendo la mano alla minoranza parlamentare. È vero, dopo l'aggressione di Milano i toni si sono fatti più misurati. Ma, a parte le facezie sul "partito dell'amore", i segnali non sono granché incoraggianti: a cominciare dall'insistenza sul "processo breve" che a questo punto mette in seria difficoltà anche Casini e rischia di ingarbugliare una matassa già abbastanza intricata.
La verità è che tutti i protagonisti della vicenda sono davanti al bivio decisivo. Il Pd può accreditarsi come forza riformatrice capace di guardare lontano e di tessere nuove alleanze. Ma in particolare Berlusconi ha l'opportunità di coronare la sua lunga stagione facendo di se stesso l'architetto di un assetto istituzionale destinato a durare nel tempo e quindi assicurandosi un posto non piccolo nei libri di storia. Fino a oggi il presidente del Consiglio è stato soprattutto un formidabile raccoglitore di voti, ma non ha saputo o non ha voluto essere il modernizzatore del paese. Per mascherare questo limite cruciale, ha usato una serie di alibi: gli alleati riottosi, l'assedio giudiziario...
Ora però si presenta l'ultima occasione. Se il Pdl pone la questione del salvacondotto per il premier come la premessa di tutto il resto, non c'è molto da illudersi. Se, al contrario, la maggioranza accetta sul serio e non solo sul piano retorico il contributo del centro-sinistra, allora forse il quadro può cambiare. Il problema dei processi in corso, che è reale e contiene una straordinaria carica destabilizzatrice del governo in carica, legittimato dagli elettori, può essere risolto all'interno del percorso "costituente". Può diventare un dettaglio della più generale riforma della giustizia. Può essere parte di un'intesa più ampia, nella quale troverebbe posto anche la riforma ordinaria della legge elettorale.

Si tratta di capire due cose. Primo, se Berlusconi intende incoraggiare la nuova leadership "realista" del Pd, cioè Bersani, oppure se vuole lasciare il segretario al suo prevedibile destino: quello di finire divorato presto o tardi dai dipietristi e da tutti coloro che, anche all'interno del Pd, condividono l'intransigenza dell'Italia dei valori. Secondo, se il Pd è in grado di stringere una qualche forma di compromesso con la maggioranza pagando i prezzi necessari e senza subire il contraccolpo politico e psicologico di tutti coloro che grideranno (e già lo stanno facendo) al famoso "inciucio".
  CONTINUA ...»

30 dicembre 2009
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